Mi capita, a volte, di sorridere per molto tempo, e accorgermene solo dopo un po’.
Mi capitò anche quella mattina, durante il viaggio in treno per Roma, dove mi attendeva l’aereo. Fuggivo dalla calura di Luglio con 20kg di zaino al mio fianco, e a renderlo così pesante erano soprattutto le felpe che speravo presto di poter usare.
Roma era anche destinazione e punto di partenza dei miei compagni d’avventura, che caso vuole si chiamino entrambi Nicola. Fatto curioso: stesso nome scelto dai genitori per richiamarli all’ordine, stessi ricci neri, stessi occhi marroni. Eppure due caratteri e modi di pensare completamente diversi. Uno, pragmatico; l’altro impulsivo. C’era qualcosa, però, che rendeva i Nicola tra loro molto simili, e in tutto e per tutto uguali a me. Qualcosa che va oltre l’aspetto fisico e l’atteggiamento nei confronti della vita di tutti i giorni: il fatto che dentro di noi, in uno dei cassetti di quell’armadio che sta tra le costole e l’anima, fossero stati riposti alla rinfusa i cocci di un vaso frantumato. Cocci che ogni viaggiatore ha nascosto da qualche parte dentro di sé.
Pensavo ai Nicola mentre fuori dal finestrino scorgevo i colli laziali. Da quanto non li vedevo? Quali strade avevano intrapreso? Quali erano le loro ambizioni? A quali domande non riuscivano ancora a trovare risposta?
Tra amici, queste cose, si dovrebbero sapere. Eppure c’era qualcosa in quel viaggio, qualcosa che mi faceva dire: «Tutte queste cose che non so, ora non hanno importanza». Perché stavamo partendo per un altro mondo, dove per dieci giorni avremmo avuto la possibilità di iniziare, maturare e concludere una vita nella vita, poco longeva ma pienamente immersiva, e questo ci bastava. Tutto il resto, tutto ciò che negli altri 355 giorni dell’anno ci caratterizzava come Pietro, Nicola e Nicola avrebbe avuto poco senso.
Come cocci di un vaso rotto, dicevo. Perché gli avventurieri come noi usano il viaggio come colla per riattaccare tra loro tutti i pezzi, come meglio si può. Non importa quanto si viaggi, non importa come si decida di vivere l’avventura, non importa cosa si cerchi. Importano solo le motivazioni per le quali un viaggiatore decide di partire. Importa solo la voglia di rompere il ritmo, come fanno i batteristi quando colpiscono in anticipo il rullante, con un colpo che suona la sveglia e tiene alta l’attenzione. La vita di tutti giorni ci impone un 4/4 ben eseguito, che innalza le palizzate del perimetro sicuro in cui nessuno può entrare: il lavoro, lo studio, la casa, le relazioni, le prospettive. Ma dopo un po’, quando ci si accorge che la cadenza dei contesti casca sempre dove si era previsto, e quando raccontando si esauriscono i Ti ricordi quella volta che?… In quel momento il vaso, a lungo rimasto sospeso in aria, tocca il pavimento e si infrange in decine di pezzi.
I Nicola arrivavano da Venezia in uno di quei bus dal tragitto eterno, con alle spalle dieci ore di viaggio consecutive. Ma quando stai per partire per l’Islanda queste cose le si accettano con molta più facilità. E anche quando li vidi al binario, finalmente giunto in stazione a Roma, non sembravano spossati.
Mentre accorciavo le distanze tra me e i miei compagni di avventura, zaino in spalla, ripensai a tutti gli avvenimenti che avevano preceduto la partenza. Avevo passato la mattinata ad innervosirmi, cercando il caricabatterie della mia macchina fotografica, e avevo finito per ricomprarne uno, tra le imprecazioni e le ansie degli istanti dell’ultimo momento.
Ma anche io avevo cominciato a sorridere, varcata la soglia del condominio con lo zaino in spalla, salutando Torino come un addio.
Ciao Torino. Tornerò, avevo pensato. Ma potrei essere diverso.
Forse quel sorriso è lo stesso che mi sarei portato dietro fino a Roma, prima di accorgermene. E poi una signora anziana, poco dopo varcata la soglia di casa: «Dove vai?» mi chiedeva.
«In Islanda» rispondevo, e mi sentivo un po’ stranito. Cosa poteva pensare di me? Volevo dirle: non sono un vagabondo, ho un lavoro, una morosa, mi pago l’appartamento, non sono in cerca di me stesso… O cose simili. Lei si limitava a rispondere:
«Bello! Anche mio figlio c’è stato per tre mesi. Ma non si faceva mai sentire al telefono, forse c’era poca rete».
Poi la metro, fino a Porta Nuova. Alle persone che incrociavo volevo urlarlo, che stavo andando in Islanda, come quando si ascolta una canzone con le cuffie sulle orecchie e si vorrebbe che anche gli altri la sentissero. Volevo solo che prendessero parte al mio viaggio, che provassero ammirazione. Che sapessero, dannazione, che stavo incollando i cocci tra loro.
Il volo partì alle 21.10. L’adrenalina aveva ormai preso il sopravvento e con foga raccontavo ai miei compagni quali tappe avremmo fatto e visto e in che ordine: una delle cascate più grandi d’Europa, una laguna piena di iceberg galleggianti, un relitto di un aereo abbandonato sulla spiaggia… Loro, invece, si confrontavano su cose più pratiche, come l’acquisto delle bombolette a gas e il noleggio dell’auto.
Ci alzammo in volo col buio, ma fu solo questione di tempo. Due ore dopo tutto cominciò a farsi reale, o surreale: stavamo inseguendo un tramonto. Rimasi un’ora con lo sguardo incollato al finestrino ovale dell’areo: la luce del Sole di Mezzanotte ci apriva le porte all’Islanda e ci accoglieva nel modo più bizzarro.
Atterrammo dopo quattro ore di volo, ma lì erano le due di notte, per colpa del fuso orario. Un islandese con la barba e lo sguardo assonnato ci attendeva reggendo un cartello con scritto “Nikola” per accompagnarci dall’aeroporto a Keflavik, dove avremmo passato la notte. Fu proprio in quel breve tragitto di quindici minuti che avemmo un primo assaggio di quello che ci attendeva: un paesaggio brullo a perdita d’occhio, incontaminato, marziano, illuminato quasi a giorno.
L’ultima cosa che pensai, prima di chiudere gli occhi, fu:
Non si può certo dire che sia una persona esigente, se basta il niente a rendermi sereno.